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PIETRO SAINO racconta il suo ultimo album CANZONI SOVRAPPENSIERO

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Dal 10 ottobre in radio e su tutti i maggiori digital-stores “Canzoni sovrappensiero” di Pietro Saino, già in rotazione radiofonica su oltre ottanta emittenti con il singolo“L’elogio dell’errore”.

Nelle parole dell’autore, “Canzoni sovrappensiero” <<è un album “barocco”: gronda melodie, arrangiamenti, situazioni. E’ un giubilo e contemporaneamente un sommesso rantolo di sconforto. E’ fatto di paesaggi: ha vette e picchi da una parte e profondità oceaniche dall’altra. E’ un viaggio. E io avrei il desiderio di diventare lo sherpa di chi legge. L’ho chiamato così perché così è nato: sovrappensiero (…) trotterellando per le strade di Milano, dell’Inghilterra, di Parigi.”

UN BEL POSTO.
“Un bel posto” è la prima canzone che ho scritto in assoluto…
Le sono affezionato perché, oltre ad essere la mia prima, è stata scritta, vissuta e pensata con candore e “ingenuità”, quasi. La “molla” perché mi uscisse questo pezzo fu il desiderio di descrivere il più nitidamente possibile un bellissimo sentimento che provavo. Proprio mentre la canzone si stava facendo largo dentro di me, purtroppo quella storia che stavo vivendo così intensamente finì all’improvviso.
Dovetti adattare il testo alle nuove circostanze ma non rinunciai all’idea che la canzone dovesse esprimere, manifestare ed urlare quanto fosse bello il mondo quando si è innamorati.
Musicalmente è un pezzo allegro, dall’immaginario –sia melodico che lirico- molto “infantile”, nella migliore accezione di questo termine, secondo me. Lo swing era lo stile musicale ideale per dargli un abito elegante ma frizzante, proprio come mi sentivo io quando l’ho scritta.
MANUALE DELLA FELICITA’.
A dispetto del titolo, “Manuale della felicità” è una canzone molto triste.
Nel luglio del 2013 mi trovavo a Brighton, in Inghilterra. Era una giornata afosissima e assolata, e stavo lavorando. Ad un certo punto mi ritrovai sul lungo pontile di Brighton, dove sorge una specie di luna park. Ero triste in mezzo a gente felice, che è emotivamente una delle situazioni peggiori che si possano vivere. Ricordo che pensai distintamente: “se esistesse un manuale che ti insegna passo passo come essere felice, lo comprerei subito”. Mi sedetti su una panchina e pensai: “beh…almeno rendiamo utile tutto questo dolore. Scriviamo un pezzo.”. Non ne uscì nulla annotai solo alcuni pensieri e stati d’animo e me ne andai con le pive nel sacco.
Musicalmente è senza dubbio il capitolo più triste dell’album. Ho pensato che fosse onesto fotografare senza alcun filtro il momento che stavo vivendo, un momento privo di qualsiasi nota positiva che potesse attutire il senso di desolazione che stavo provando.
LOCHNESS.
-L’idea alla base di Lochness è nata quando mi trovavo in Inghilterra, a Portsmouth. Quel giorno ero di buonumore ed ero sotto la doccia. Ripensai con leggerezza ad una storia che avevo vissuto. Una storia che mi aveva reso così “vivo” e più aperto alle relazioni. Quel rapporto mi aveva dimostrato concretamente che l’amore, il “vero amore”, esiste eccome. Poco tempo prima che quella storia avesse inizio mi sentivo molto disilluso a riguardo. Era una leggenda? Credevo che in fondo tutti noi ci mettiamo con un’altra persona perché ne abbiamo bisogno, per tanti motivi, ma che non esistesse l’amore vero, quello con la A maiuscola.
Ma ciò che avevo vissuto, come avevo amato, cambiò radicalmente il mio modo di vedere le cose. Pensai: “…ma allora…il vero amore non è una leggenda!. E se non è una leggenda quello, tante altre leggende potrebbero essere vere”. Ecco l’idea per la canzone. Avrei cantato con gioia di questa scoperta, colorando un mondo in cui tante leggende prendono vita (compresa l’esistenza del famoso mostro!)
AUTUNNO GIAPPONESE.
A giugno del 2013, “facendo pulizia”, ritrovai un haiku che avevo scritto nel 2006, al ritorno dalle vacanze. Gli haiku sono piccoli poemetti di origine giapponese, volutamente ermetici ed evocativi, che generalmente descrivono uno stato d’animo facendo uso degli elementi della natura che contraddistinguono una stagione dell’anno. La loro struttura si compone di tre versi da 5, 7 e 5 sillabe.
Il mio haiku recitava così: “sorrisi seduti/su nuvole d’agosto/ora l’autunno”. Ora, non fate caso al fatto che il primo verso sia di 6 sillabe e che cannai subito la scansione dell’haiku , ero giovine e manco me ne accorsi. Il punto è che, rileggendo quell’immagine, pensai che potesse essere bello scrivere una canzone fatta unicamente di haiku e che in qualche modo riguardasse l’autunno. Così fu. Combinazione, era proprio autunno quando iniziai a scrivere. Immaginai di incamminarmi lungo un sentiero ruvido e impervio, un po’ come mi sentivo io nei confronti di troppe cose. E, così come i sentieri possono essere pericolosi e angusti con le loro insidie e i loro rami pungenti, così possono anche improvvisamente spalancarti paesaggi di una bellezza immensa. Questo fu il cuore del pezzo.
Pensai che, malgrado tutto quello che una persona possa passare, la capacità di tenere gli occhi bene aperti sia una grossa qualità da sviluppare perché solo in questo modo si può davvero scorgere la bellezza anche nelle più piccole cose. E la bellezza salva sempre.
-A livello musicale è uno dei pezzi più sperimentali dell’album e forse quello che contiene più “tracce”, più elementi suonati. Il mio desiderio era che evocasse mistero, riflessione e misticismo e per fare questo, oltre agli archi interlocutori, ci siamo avvalsi di moltissimi strumenti e suoni.
Già dall’inizio avevo il chiodo fisso di dare alla canzone un ritmo ipnotico e legnoso ma non sapevo che strumento usare. Poi un giorno mi sono messo a cercare in rete dei suoni che avessero a che fare col legno e trovai questa accetta che si abbatte sul ciocco e poi lo spacca in due: era un suono perfetto.
Il resto viene scandito dalla voce femminile che pronuncia la parola giapponese hakinoa (non ho idea se la scrittura sia corretta) che significa “foglia d’autunno”.
Sam Torpedo ha regalato ad “Autunno” la sua sapienza in fatto di percussioni. Tra le varie, suona anche l’udu che è una specie di vaso, di origine africana, che fa un suono bizzarro.
QUATTRO STAGIONI A RIO.
Spesso è difficile separarsi da una storia che è inesorabilmente finita e capita sempre quel momento in cui, anche senza volerlo, si rivivono attimi intensissimi che però fanno ormai parte del passato. Questa fase, secondo me, non provoca necessariamente solo dolore. Mi sono sorpreso a sorridere ripensando a vecchi momenti dove sono stato bene, dove ho riso, dove ho pianto, dove ho litigato. Quello che colpisce sempre, in questi casi, è la nitidezza con cui si ricorda ogni passaggio, ogni dialogo, ogni sfumatura.
Decisi allora di scrivere una canzone che riassumesse tutto questo, che descrivesse una storia d’amore nella sua “parabola”: il pre, l’inizio, il culmine e la fine.
Questo ripercorrere il passato con dolore ma anche col sorriso mi ha spinto a scegliere un genere musicale particolare, per descrivere i momenti che avevo intenzione di immortalare: la bossa nova. E’ un tipo di musica brasiliana che trae origine dalla samba e, nel suo stato d’animo, è generalmente dolce-amara. Scegliere una musica proveniente da un continente così lontano, poi, è utile per dare l’idea della lontananza che c’è adesso, dove i due protagonisti sono come separati da un oceano, in mezzo.
NELLE GOCCE.
Per raccontare “Nelle Gocce” devo riferirmi al verso di un’altra mia canzone. In “Dialogo col tempo” c’è un passaggio che recita: “e dire tutto quello che si ha dentro/prima del rimpianto”. Credo che questo verso, per me, sia significativo perché troppe volte non sono riuscito a comunicare alle persone quanto volessi loro bene. Capita che, quando alcune di queste persone se ne vanno per sempre, il rimpianto scavi gallerie dentro e torni fuori quando meno ce lo aspettiamo. Così fu per mia nonna. Una notte mi svegliai con le lacrime agli occhi. Piangevo nel sogno e nella realtà. Mi accorsi anche di un’altra cosa: se, oggi, qualche volta, riesco a scorgere la bellezza, è merito dei miei genitori che mi hanno insegnato a farlo. Ma sono sicuro che lei abbia ispirato mia madre, in questo. Una delle sue ultime fotografie la ritrae sorridere “di cuore”, come una bambina, alla vista di “semplici” cassette piene di ciliegie. Ci si può stupire per delle ciliegie? Evidentemente sì. E lei ne era felice, e quella “felicità semplice” se l’è portata con sé, tra le mani, scorgendo risposte in tutta la bellezza che ha saputo assaporare durante la sua vita.
(non sono “religioso” ma l’osservare mia nonna, il suo vivere la spiritualità in modo così vero, così intenso ed emozionato credo mi abbia spino a chiedermi, a farmi domande. Ognuno di noi ha il suo personale cammino da fare e le sue risposte, le sue verità da trovare. La strada che si intraprende e le scelte che si fanno sono molto personali. Ma stare vicino a persone che vivono le proprie scelte con questa intensità è certamente motivo di crescita e di ispirazione per chiunque)
Nelle gocce è un pezzo essenziale.
La parte centrale è stata concepita perché suonasse come un carillon: parlo di un sogno, della notte, e queste note acute sono come stare “in punta di piedi”, con il senso furtivo di chi si aggira in una casa a luci spente quando tutti dormono.
La parte strumentale è letteralmente il volo del piccione di cui si parla nel testo: la sua rincorsa, il suo librarsi nel cielo. Il ritornello, invece, gioca con l’idea di una salita e una successiva discesa: il piccione che arriva a destinazione.
L’ELOGIO DELL’ERRORE.
Qualche tempo dopo aver realizzato e deciso che stavo effettivamente scrivendo un album, mi dovetti puntualmente confrontare con vecchi blocchi e timori del “momento creativo” che in passato mi condizionarono tantissimo, e che lo fanno tutt’ora, giocandomi brutti scherzi. Era (è!) come se io non riuscissi ad avvicinarmi all’atto di inventare qualcosa con la giusta serenità perché esigevo da me stesso sempre e comunque qualcosa di “grande”. Ho pensato allora a quanto potesse essere salutare e utile accettarsi nella propria banalità e quanto fosse liberatorio assistere ai propri errori senza pensare che siano un referendum definitivo sulle proprie capacità. Ne è uscito un pezzo energico, festoso e “catartico” che celebra proprio l’errore.
-musicalmente, l’arrangiamento di pianoforte elettrico, clavinet e hammond dà alla canzone identità e grinta, sostenendo lo slancio dei fiati. La scelta del clavinet, però, lo rende anche autoironico e leggero.
I fiati, arrangiati da Riccardo Giarda, sono irriverenti.
Qua e là abbiamo appositamente piazzato alcune stonature (vedi il finale del pezzo e la parte centrale dell’assolo) facendo così un tributo all’errore stesso.
DIALOGO COL TEMPO.
Nel 2005, quando morì Papa Wojtyla, rimasi molto colpito (sarebbe meglio dire scioccato) da una foto che ritraeva centinaia di persone radunate attorno al feretro del defunto papa. Tutte queste persone non stavano “vivendo” in prima persona quel momento toccante, ma lo stavano filtrando attraverso un telefonino o una fotocamera. Mi sono chiesto, allora, che rapporto avessimo tutti noi col tempo e col senso. Col tempo perché troppe volte rischiamo di pensare di più a cosa mostreremo ai nostri amici tramite un telefonino, perdendo la “vera connessione”, la connessione con ciò che sta avvenendo nel presente. Viviamo senza “impregnarci” di ciò che sta accadendo davanti ai nostri occhi in quell’istante, destinando un’ampia porzione della nostra mente e delle nostre emozioni per “apparecchiare” tutto ciò che stiamo vivendo, in modo da presentarlo al meglio dopo, a chi racconteremo. In questo modo c’è –credo- un impoverimento del vivere. Che porta a un impoverimento del senso e del rapporto che abbiamo con esso.
La musica e gli arrangiamenti di questa canzone sono stati a lungo dibattuti. Sarebbe potuta essere un walzer fatto di archi o con la fisarmonica. Oppure un pezzo tutto a cappella, di cui ho registrato anche una rudimentale demo. Ne è scaturita una terza versione, dove il contrabbasso spazia senza necessariamente ripetersi e la chitarra s’inventa dei commenti che partecipano a quello che racconto.
VOGLIO ESSERE IL TUO SPECCHIO.

Crescere –o, se preferiamo- invecchiare, porta con sé, a volte, dolorose consapevolezze.
In questi ultimi anni mi è capitato di assistere a persone meravigliose ma paradossalmente non più capaci di scorgere in sé la propria ricchezza. Ho cercato di dire, scrivere, cantare e urlare loro in ogni tipo di modo quanto fossero splendide, quanto non dovessero avere paura. Ma è come se non mi avessero mai creduto. È stato difficilissimo e frustrante ma ho anche imparato tanto di me stesso. E mi è spesso capitato di pensare che forse, in troppi, siamo così fragili da avere bisogno continuamente di conferme dall’esterno, mi è capitato di pensare che noi non ci bastiamo più. Che i nuovi specchi siano i selfie, che altro non sono che continue richieste di approvazione.
Forse sono utopista e melenso ma continuo a pensare che se tutti quanti ci dicessimo di più quanto ci stimiamo, quanto valiamo e quanto ci vogliamo bene, forse non ci sarebbe tutto questo disagio.
Un tempo questa canzone sarebbe stata solo un pezzo pop di quelli in cui si dice “non temere”. Oggi, forse, aggiunge un qualcosa in più. Questo perché sono “cresciuto” e la vedo diversamente. Ho conosciuto aspetti delle relazioni che non mi permettono di avere così tanto “ottimismo” o, per meglio dire, illusione. Che forse è anche una cosa positiva perché si ha una maggiore adesione alla realtà. Non saprei bene dire.
È bello che a volte qualcuno creda, creda fortemente in te e cerchi di dirtelo in tutti i modi, comunque.
“Specchio” è stata ben presto rinominata “Salerno Reggio Calabria” per via dei continui aggiustamenti, una specie “cantiere aperto”, fin da subito. All’inizio pensavo potesse essere un pezzo voce-chitarra, più essenziale. Poi grazie a Paolo Rossini –che ha prodotto con me l’album- sono arrivate le chitarre elettriche che qui hanno una doppia valenza: ciò che “disturba” la protagonista–e di lì le distorsioni e le “vampate”- e parallelamente la grinta di chi canta per lei, che desidera tirare su di morale chi si sente vinto e inerme.
Il coro femminile cerca invece di smorzare questa confusione e di riportare tutto a una pace interiore che in fin dei conti è possibile raggiungere.
MAGO DI OZ.
Noto e osservo che viviamo in un mondo difficile. Difficile perché spesso si fa fatica a conciliarsi con la parte più vera di sé dato che tutti ci dicono –ci diciamo!- come sarebbe meglio essere. E allora una persona, per cercare di “sopravvivere”, tende a recitare parti o ad approfondire parti di sé trascurandone altre.
Quando tutti noi viviamo un amore vero o un’amicizia profonda ci succede una cosa: gettiamo la maschera. Ci affidiamo all’altro per quello che siamo, provando un senso di sollievo, quasi. È un momento commovente perché possiamo mettere in comune tutte le nostre fragilità, i nostri “infantilismi”, le nostre limitatezze, i nostri dolori, le nostre banalità e ricominciamo a respirare. Io quando l’ho fatto sono rimasto stupefatto dall’amore e dall’accoglienza che ho ricevuto. Una sensazione bellissima.
Quella parte, quella parte celata e nascosta e della quale spesso ci vergogniamo, io la chiamo “Mago di Oz”. Il Mago di Oz, se ricordate, verso la fine del libro si veniva a scoprire che fosse un cialtrone. Non un potente mago ma un ometto modesto e pelatino che si nasconde dietro una tenda fingendo di essere grandissimo e potente. Credo sia una buona metafora del nostro vissuto e credo anche che ci sia una dignità nel vivere in maniera più libera, onesta e “modesta”. Ecco, “Mago di Oz” parla di tutto questo.
E’ un pezzo che non è stato facile arrangiare. Si compone di tre parti: la prima parte è accattivante, complici il basso seduttore in abbinamento alla voce profonda e calda. La seconda parte introduce l’inesorabile “crollo” della facciata. Un disturbo del segnale cambia quasi stazione alla radio: il pezzo cambia nella tonalità e negli arrangiamenti. La terza parte è una summa delle due precedenti, tenendo conto di quanto è stato appena raccontato.

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